giovedì 20 dicembre 2012

Il calcio raccontato: GIANNI BRERA


In pochi della nostra generazione lo conoscono, ma Gianni Brera, è uno di quelli che ha fatto la storia del nostro calcio, raccontato e non solo.
Morto venti anni fa in un incidente stradale, la sua vita e un po’ come quelle storie di personaggi dello scorso secolo, che racchiudono ancora qualcosa di mitico, tra passato e futuro, in rottura con il presente tanto amato, geograficamente padano ma giramondo, mi ricorda Hugo Pratt.
Inventore di una serie di neologismi diventati costante del gergo calcistico quali: contropiede, intramontabile, centrocampista, incornare, pretattica, melina, goleador, disimpegnare, cursore e libero che gli venivano dall’elaborazione dei tanti testi custoditi nella sua vasta biblioteca è uno di quei rari cantastorie e raccontatori che ha lasciato il segno ed emozionato i lettori.
Personaggio a 360° che si è diviso tra cronaca, letteratura, cucina, politica e sport, fortemente legato alle sue origini:

«Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l'8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti (…) Io sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po.»

Vita

Laureatosi in scienze politiche all'università di Pavia nel 1943, mentre prestava servizio come tenente paracadutista della Divisione Folgore, si rifugiò poi in Svizzera nel 1944 per sfuggire alla Gestapo, che ne sospettava la contiguità con la lotta partigiana. Rientrato in Italia, si unì alla Resistenza in Val d'Ossola, grazie all'intervento del senatore Maffi e di Giulio Seniga, che garantì per lui, salvandogli la vita. Come aiutante di campo della brigata Comoli, facente parte della Divisione Garibaldi Redi, fu l'autore del piano che sventò la distruzione per minamento del traforo del Sempione. 
Brera si gloriò sempre di aver attraversato tutto il periodo della seconda guerra mondiale, da paracadutista e da partigiano, senza aver mai sparato ad un altro essere umano.
Tornato alla vita civile, nel 1945 fu chiamato da Bruno Roghi alla Gazzetta dello Sport, il più importante quotidiano sportivo italiano, testata della quale diverrà direttore nel 1949, il più giovane nella storia del giornalismo italiano, dopo un fortunato reportage dal Tour de France di quell'anno.
Sposatosi nel 1943 con Rina Gramegna (1920-2000), ne ebbe quattro figli: Franco (n. e m. 1944), Carlo (pittore, 1946-1994), Paolo (scrittore, n. 1949), Franco (musicista, n. 1951).
Tra le numerose testate su cui Gianni Brera scrisse, vi sono, oltre alla citata Gazzetta, Il Giorno, Il Giornale, il Guerin Sportivo e la Repubblica. I suoi articoli sono stati tradotti in diverse lingue. Si devono a Brera anche numerosi libri: manuali, saggi, romanzi, racconti e pièce teatrali e radiofoniche. Il suo romanzo più celebre fu indubbiamente Il corpo della ragassa che nel 1978 venne adattato per il cinema daAlberto Lattuada e diretto da Pasquale Festa Campanile.
Nel 1956, quando Giulio Seniga ruppe con il Partito Comunista Italiano per i fatti d'Ungheria, si rifugiò a casa di Gianni Brera portando in una valigia un milione di dollari che rappresentavano il finanziamento dell'Unione Sovietica al Pci. Seniga utilizzò poi il denaro per l'attività politica, fondando in Svizzera la casa editrice "Azione Comune" che diresse riconoscendo a sé stesso solo uno stipendio da operaio.
Morì il 19 dicembre 1992 in un incidente automobilistico sulla strada che collega Codogno a Casalpusterlengo. Nel 2002 l'Arena Civica di Milano fu reintitolata a suo nome[1], e l'allora sindaco della città Gabriele Albertini disse: «Arena Civica era una definizione troppo formale, finalmente questo luogo ha un nome che sa di grande umanità e dedizione allo sport». 

Filosofia Calcistica

Gianni Brera ha legato indissolubilmente il proprio nome alla filosofia calcistica del "catenaccio" all'italiana.
L'idea di togliere un attaccante ed aggiungere un difensore esentato da marcature (il cosiddetto "libero") nacque in Svizzera negli anni trenta. Il successo dell'innovazione si misurò al mondiale del 1938, in cui la selezione elvetica riuscì a superare in un doppio confronto la forte compagine austro-tedesca. Il termine "verrou" con cui gli svizzeri definirono quella tattica, fu tradotto letteralmente con "catenaccio" in Italia. Fu solo nel corso degli anni cinquanta e sessanta che tale modulo fu preso in considerazione nella penisola: Gipo Viani e Nereo Rocco furono gli sperimentatori, Gianni Brera il "teorico".
Brera sosteneva la necessità di adottare il catenaccio in Italia per riportare il calcio giocato nel Paese ad alti livelli internazionali. La teoria partiva dal presupposto che gli italiani non erano fisicamente all'altezza degli altri popoli e che, di conseguenza, non potevano impostare un calcio sistematicamente offensivo per 90 minuti: a trascinare al successo sarebbero stati, a suo avviso, sempre personaggi di confine che - come Cavour e De Gasperi nella storia politica del Paese - si prendevano in carico la Nazionale emancipandola da tecniche offensive per giocare d'astuzia economizzando le energie ed utilizzando tattiche di opportunità. 
Il prototipo di questa descrizione fu il CT della Nazionale campione del mondo nel 1982, il friulano Enzo Bearzot, anche se in quella circostanza Brera fu protagonista di un clamoroso infortunio: all'esordio della trasferta spagnola dichiarò che se l'Italia fosse diventata campione del mondo avrebbe percorso a piedi la distanza tra la sua casa milanese e un santuario di devozione mariana lombardo; un mese dopo il trionfo del Santiago Bernabeu si fece fotografare in abito penitenziale e scalzo mentre saliva il sagrato del santuario.
Sebbene tali affermazioni non fossero indiscusse, Brera difese strenuamente sino alla fine quella visione delle cose. Anche per questo non vide mai di buon occhio Arrigo Sacchi e la concezione di calcio offensivo e dispendioso che introdusse in Italia, attribuendo i meriti dei successi del Milan ai soli giocatori olandesi.
Ma le polemiche che resero Brera celebre nel corso degli anni sessanta furono rivolte principalmente al "Golden Boy" rossonero Gianni Rivera e, più in generale, a quei giocatori tecnici, ma non combattivi che poco aderivano alla sua filosofia calcistica, ma che ricevevano invece un rilevante supporto dalla cosiddetta "scuola napoletana" e dal suo capostipite, Gino Palumbo. Brera soprannominò Rivera "abatino" e osteggiò apertamente in molte occasioni l'impiego del giocatore nella nazionale italiana, pur riconoscendone la grande intelligenza calcistica e personale. Nonostante i successi nazionali e, ancor di più, internazionali del Milan di quel periodo, la polemica col fuoriclasse rossonero non si sopì mai, entrando nell'immaginario collettivo italiano. Brera e Rivera comunque si rispettavano molto a vicenda e dopo la morte di Brera, Rivera fu tra i fondatori dell'Associazione Amici di Gianni Brera, oggi Simposio Gianni Brera.
Nel periodo anni settanta/ottanta Brera scaricò la propria insofferenza per i giocatori tecnici, ma non gladiatori, sul regista della Fiorentina e della nazionale Giancarlo Antognoni e sul fantasista nerazzurroEvaristo Beccalossi. A detta del giornalista queste critiche gli causarono, nel corso degli anni, molti attriti con giornalisti e tifosi d'opinione diversa.

Repubblica commemora i 20 anni della sua morte con un volume che raccoglie i suoi articoli per la testata. 9.90 in edicola, consigliato!

3 commenti:

  1. Aggiungo che era il Genoa la fede calcistica del Brera, squadra per la quale coniò il soprannome di "Vecchio Balordo"

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  2. Verissimo Giffi, oggi il genoa è più "balordo" che mai :-D. Speriamo si riprendano.

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  3. Mai soprannome fu così azzeccato, ed ancora attuale.

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